Le sirene delle startup miliardarie non incantano più i freelance?

Cinquantatré milioni di americani lavorano come freelance per la sedicente sharing economy, che altri chiamano più correttamente on-demand economy (Ode, suona anche poetica, la cosa) o anche “1099 economy”. Sono il 34% della forza lavoro. Nel 2020 potrebbero arrivare al 40%, gli independent contractors, negli Usa. Un esercito, la categoria maggiormente in crescita secondo una ricerca promossa dal sindacato (orrore!) dei Freelancers e svolta da studiosi associati all’università di Stanford, noto covo di comunisti assetati di sangue capitalista (scherzo eh?), su un campione di 1.330 lavoratori.

In questo articolo pubblicato su Wired si racconta cosa dice la ricerca (che costa dollari 99 per chi se la volesse leggere tutta). Io cerco di riassumervi la morale della faccenda.

La gente che lavora per la app economy (io la chiamo così, si capisce prima: è l’economia del click, del lavoratore squillo) si stanca molto presto – quando se lo può permettere – perché scopre che i turni non sono poi così elastici come si potrebbe pensare. Gli orari sono luuunghi. Ci si alza prima del previsto, si finisce molto dopo quel che ci si sarebbe aspettato. E la paga è bassa, sì non ci si arricchisce, nella stragrande maggioranza dei casi.

Può andare un po’ meglio per chi lavora nel ridesharing (Uber, Lyft, per capirci) o per Airbnb (in media 25 dollari l’ora), va molto meno bene per l’housecleaning (collaboratori domestici, in media paga da 15 dollari l’ora) e le consegne. Per guadagnare un po’ di più si rincorrono le ore di picco della domanda, alla mercé di quando quelli con i soldi veri hanno bisogno di te. Incasso mediano è di 18 dollari l’ora, superiore ai 12,25 dollari di salario minimo a San Francisco, cita la ricerca. Il che corrisponde, secondo il campione, a un quarto delle entrate familiari. Un quarto.

Aspettate, non è finita.

Top complaints from workers included not being able to find enough work, not understanding legal obligations and taxes, and being unable to optimize schedules to maximize earnings. Half of the respondents said they planned to stop working for on-demand companies within the year, citing insufficient pay, lack of enjoyment of the work, or simply because they no longer had the need to work the job.

Chiaro? Alla fine in tanti si spartiscono la torta (che aumenterà anche ma aumentano di più quelli che ne vogliono una fetta, pare), scarsa è la chiarezza sugli aspetti legali (pensiamo a fatti come questo…) e sul pagamento delle tasse. Metà degli interpellati dice che non intende resistere più di un anno perché il gioco non vale la candela: paga insufficiente e molto stress sono due delle tre ragioni (la terza è che qualcuno trova un lavoro migliore).

Il pezzo su Wired conclude ricordando che in fin dei conti siamo in un’epoca in cui – non si scappa – i lavori veramente fighi e ben pagati toccano esclusivamente agli high skilled, come sottolinea Enrico Moretti, economista a Berkeley e autore dell’illuminante saggio “La nuova geografia del lavoro“. Quanto al caporalato è sempre esistito, ma oggi si apprestano a rimpiazzarlo le startup miliardarie e le loro app miracolose, che lo ripresentano in una veste molto più smartcool. Soprattutto clean, pulita, e alla portata di tutti. La trasformazione avviata dall’irruzione in campo della tecnologia, insomma, è sotto i nostri occhi e bisognerà farci i conti. Nel bene e nel male.

La ricerca rafforza la tesi contenuta in questo articolo del Wall Street Journal. Qualche entusiasta italiano dell’innovazione magnifica e progressiva dovrebbe magari rifletterci su.

Per il resto, le conclusioni tiratele voi.

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